​Ungheria 1956, la lunga notte della Ragione

“Passato è il tempo delle gesta eroiche… Passato è il tempo delle epopee: questo è il tempo delle statistiche”. Lo diceva Joseph Roth e sarebbe anche ora, a distanza di 66 anni, di sommare i numeri e dare giustizia a chi visse l’inferno. Ungheria 1956, un giovane di 24 anni, László Molnar, partecipò alla Rivoluzione sfociata nel sangue, i moti nati spontaneamente dal popolo che chiedeva libertà ma venne schiacciato e umiliato e costretto all’esilio, senza che nessuno in tutto questo tempo chiedesse scusa o si pentisse o semplicemente ammettesse. 

László vive ora a Bologna, dove arrivò nell’aprile del ’57 a seguito della repressione: allora ebbe la fortuna di avere una borsa di studio dell’Università, tramite un professore ungherese che aiutò i profughi. A 90 anni è ora di raccontare e condividere (lo faremo in una serie di articoli).

“Ero a Szeged. Quel 22 ottobre del ’56 un’immensa moltitudine scesa in piazza chiese libertà essenziali, di stampa e movimento, gridando i famosi 12 punti che Sándor Petőfi scrisse per la Rivoluzione del 1848 al Governatore generale degli Asburgo a nome dei Márciusi Ifjak (Giovani di marzo). Il giorno dopo in cinque siamo stati autorizzati ad andare alla Radio. Quando arrivammo, vedemmo tanta gente, ma nella moltitudine si nascondevano i servizi segreti ungheresi e il famigerato Kgb russo”. Spararono sulla folla, così come fecero fuoco indiscriminatamente il giorno dopo davanti al Parlamento, dai sottotetti e dai carri armati. E’ l’inizio della Rivoluzione e purtroppo anche la sua fine.

László Molnar (a destra) con l’Ing. Massimo Rogante in un recente meeting della Comunità Ungherese a Loreto

“Rimango a Budapest, cercando di capire gli sviluppi, cerco ospitalità tra amici e conoscenti. La gente aveva voglia di prendere le armi”. Ma la repressione è durissima. “In una sola notte sono arrivati cento carri armati. Ritorno a Szeged, cerco complicità nella sommossa, ma ci sono altri morti e feriti. Budapest è colpita e bombardata. ​I soldati sovietici bloccano il confine austriaco per non far fuggire gli ungheresi all’estero. Fino all’ultimo ci ho provato. Ho cercato di rimanere in Patria ma già era chiara quale fosse la fine della storia”. 

E così László, che vive a tre chilometri dal confine con l’ex Jugoslavia, trova un appiglio che lo salva, inaspettato forse. “I capi della Rivoluzione ungherese si erano rifugiati nell’Ambasciata jugoslava e sia Krusciov che il generale Malinovski promisero allo stesso Tito che, se fossero usciti, sarebbero stati salvi e senza conseguenze. Ma avvenne il contrario. Sparirono. Il generale Tito si sentì tradito e così aprì di fatto i confini agli ungheresi che scappavano”.

La lunga Notte cominciò allora, “camminando sotto la pioggia ei fulmini, pieni di fango, cercando un confine che neanche sapevamo dove stesse”. “Ci aiutò un contadino, i posti di blocco erano abbandonati, ma quelli che vedevamo all’orizzonte, che sembravano al buio cumuli di terra erano in realtà militari ​jugoslavi ​che prima ci portarono al comando e poi in un antico edificio termale”.

E’ una fuga che sembra un film di Kusturica, in cui l’ironia segue sempre il dramma che il giovane László sta vivendo. Come il fatto che fosse scappato, in tutta fretta, da Szeged, con un pianista, una violinista, un primo violoncellista e questi ultimi si erano portati gli strumenti con sè. “Poi dopo due o tre giorni ci misero sul treno senza comunicarci il destino. Vedevamo dai finestrini l​a ​gente che ci salutava. Avevano capito il nostro dramma e ci volevano dare un messaggio di affetto”. Verso Trieste.

“Ci portano verso quello che sembrava un campo di concentramento, in realtà un edificio abbandonato, costruito addirittura da alpini italiani, Là ci fanno spogliare e ci ‘disinfettano’ con il DDT. Dormiamo in 42 in una stanza, ma ci trattano bene. Successivamente venne il console italiano. Al confine arrivano i carabinieri con un fiasco di Chianti”. László era di nuovo libero, ma con la morte nel cuore. Molti allora appoggiarono quella tragica repressione, che fu il dramma di un intero popolo, invece di condannarla. Non hanno mai cambiato idea. 

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