Temeva per il suo posto di lavoro, Gianni Mion. Come un qualsiasi impiegato che deve sfamare moglie e figli. Come un qualsiasi fattorino che sbaglia una consegna. Quanto è fragile il potere che ci fanno vedere.
Mion era amministratore delegato alla Benetton Edizione quando crollò il ponte Morandi a Genova. Al processo per le 43 vittime del crollo, il manager si è liberato di un peso insopportabile, quello che si portano in genere addosso gli ad delle compagnie intoccabili: non poter dire la verità.
Mion finalmente l’ha detta. “Il ponte aveva un difetto originario di progettazione e che era a rischio crollo. Chiesi se ci fosse qualcuno che certificasse la sicurezza e il dg Riccardo Mollo mi rispose ‘ce la autocertifichiamo’. Non dissi nulla e mi preoccupai. Era semplice: o si chiudeva o te lo certificava un esterno. Dopo quella riunione avrei dovuto fare casino, ma non l’ho fatto. Forse perché tenevo al mio posto di lavoro. Non ho fatto nulla, ed è il mio grande rammarico”.
La tragedia di Genova è tutta in queste parole finali: “Eravamo impreparati a gestire una rete autostradale”. La riunione in questione è avvenuta, con l’ad di Aspi Giovanni Castellucci, Mion, Mollo e Gilberto Benetton, oltre che il collegio sindacale di Atlantia, ben otto anni prima del crollo strutturale del ponte. Tutti sapevano, come il Comitato delle vittime ha più volte detto.
Non si sa se alla fine qualcuno pagherà per quanto successo, ma è certo che il 14 agosto 2018 in 43 andarono incontro a una morte annunciata. E ci sono voluti 5 anni per sapere la verità, una qualsiasi verità sull’accaduto. E’ bastato uno stream of consciousness di un manager dominato dalla paura per dirci che Paese viviamo.