La Palma d’oro è andata a un thriller legale, “Anatomie d’une chaute”, di Justine Triet. Premio Gran Prix a “The zone of interest” di Jonathan Glazer. Trentaquattro anni dopo aver sedotto Cannes con il suo celebre “Paris,Texas”, Wim Wenders, grande favorito, non è riuscito a conquistare l’ambito premio con il suo commovente inno alla vita, “Perfect Days”, la storia di un addetto alle pulizie dei bagni di Tokyo (lo straordinario Koji Yakusho), nella esistenza quotidiana umile e ripetitiva, tuttavia piena, in ogni dettaglio, di Bellezza (non retorica, come nello stile del regista tedesco).
Ma, attenzione, di film belli quest’anno ce ne sono stati molti: da “Kuolleet lehdet” (Le foglie cadute) di Aki Kaurismäki, altra elegia alla marginalità (è l’incontro tra due solitari, l’impiegata in un supermercato Ansa e il problematico Holappa), a “Kuru otlar üstüne” (Le erbe secche sono decisamente un festival autunnale…) del turco Nuri Bilge Ceylan, da “Monster” del venerato coreano Kore-eda a “Rapito” di Marco Bellocchio, storia di Edgardo Mortara, un bambino ebreo di 7 anni, preso a forza dai soldati di papa Pio IX per convertirlo alla fede cattolica.
Presidente della giuria del 76esimo Festival è stato lo svedese Ruben Östlund (che qui ha vinto nel 2017 con ”The Square” e cinque anni dopo con “Triangle of Sadness”). In concorso anche l’immortale Ken Loach con il bellissimo “The Old Oak” e gli italiani Nanni Moretti con ”Il Sol dell’avvenire” e Alice Rohrwacher con “La Chimera”.