Israele e l’incerta strategia di guerra. Per ora solo stragi nei campi profughi

La seconda Nakba (la parola araba indica l’esodo palestinese, la prima fu nel 1948), spostare cioè i civili di Gaza nel Sinai, appare oggi una soluzione lontana che nessuno vuole. L’esercito israeliano è entrato nella Striscia ma non ha scelto di attaccare direttamente, via terra e cielo, in una guerra lampo. Tutt’altro. Lo stesso portavoce delle Forze di difesa, Jonathan Conricus, ha parlato di operazione “lenta e meticolosa”, il che, al momento, significa una sorta di “stop and go” in aree circoscritte.

L’attacco possente da nord a sud, come prevedevano gli analisti militari di tutto il mondo, non ci sarà. Tsahal, l’esercito dello Stato ebraico, forse sta semplicemente aspettando ordini che non arrivano. Nel frattempo colpisce la rete di tunnel sotto il suolo costruita dai palestinesi, almeno cinquecento chilometri sottoterra.

L’emergenza umanitaria, inutile dirlo, è una realtà: a Gaza muoiono quattrocento bambini al giorno. A Jabaliya, quattro chilometri a nord di Gaza City, un bombardamento ha distrutto il campo profughi. Secondo Israele era sede del comando locale di Hamas: “Abbiamo ucciso uno dei capi, Ibrahim Biari, responsabile dell’attacco ai kibbutz del 7 ottobre” hanno annunciato i vertici militari. Ma il vero problema dell’azione militare di Israele è forse il consenso internazionale all’operazione, che non c’è o almeno non è compatto.

Anche la strage di Jabaliya non ha fatto che creare perplessità negli alleati e inimicarsi altri Paesi, come l’Egitto, che ha condannato gli attacchi ammonendo contro “le conseguenze della prosecuzione di questi attacchi indiscriminati che prendono di mira civili indifesi”. 

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