“Il meglio di una cultura viene sollecitato da persone che si trovano in minoranza e che proprio per i loro doni vengono emarginate e all’occorrenza perseguitate”.
Faber, dove sei? Tra i pochi a raccontare la solitudine del mondo, afflitto da mali incurabili, a esaltare gli ultimi e gli emarginati, ma anche orgoglioso alfiere di ogni rinascita e amore, Fabrizio De Andrè è ancora con noi, più attuale che mai. Se ne andò l’11 gennaio di 25 anni fa lasciandoci le canzoni forse più belle e giuste, se giustizia fosse realtà e non utopia di questo mondo.
Cantore di un’umanità in difficoltà ma sempre sul punto di resuscitare per un gesto, delle contraddizioni dell’amore (“Quei giorni perduti a rincorrere il vento, a chiederci un bacio e volerne altri cento”), delle solitudini (“C’è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo”), anarchico per vocazione (“Ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane, ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame”) e contro ogni potere e gli abusi di esso (il privilegio del caffè concesso a Don Raffaè in galera), De Andrè ci ha insegnato molte cose.
Ne “La domenica delle salme” grida: “Voglio vivere in una città dove all’ora dell’aperitivo non ci siano spargimenti di sangue o di detersivo” e in una dicotomia ironica ha già spiegato dove siamo finiti tutti. Nella stessa canzone il rinnovamento parte dagli ultimi, dal “poeta della Baggina” a cui incendiano la barba in un treno per Trento “ma si salvò, un pettirosso da combattimento” e la protesta di un Paese in ginocchio è il finale canto dei grilli. E’ il silenzio dei valori, l’etica e la morale ridotte al mutismo. Per ritrovarsi l’imperativo è solo uno: andare “in direzione ostinata e contraria”.