“E c’è che vorrei il cielo elementare/ azzurro come i mari degli atlanti/ le tersità di un indice che dica/ questa è la terra, il blu che vedi è mare”. In “Azzurro Elementare” Pierluigi Cappello ha raccolto le poesie dal ’92 al 2010, quelle in cui “tutto è sconquasso, tutto si è rotto e ha bisogno di essere ricostruito”. Ricreare un mondo è stata per questo dolce e colto ragazzo friulano, prematuramente scomparso sei anni fa, è stata una necessità – e poi un ricongiungimento con la natura e le cose – sin da piccolo, da quando il suo visibile, il Friuli che viveva, fu distrutto da un terremoto (era il 1976, il poeta aveva 9 anni) e più tardi quando un incidente in moto lo lasciò con il midollo spinale reciso e un amico morto da ricordare sempre.
“Cercando troverete/ molto cercando, molto anche morendo”. E’ storia di povertà e sacrifici quella di Cappello: la sua casetta prefabbricata è il punto d’osservazione migliore per il suo dolore e per il racconto che avrebbe poi narrato, quello della fine, con il sisma e il nuovo disegno dei territori, di una integrità e della civiltà contadina e montanara “della sua Chiusaforte”.
“Il presente entra come un tavolo rovesciato” in tutte le composizioni di Cappello, “perchè ho soltanto i miei occhi nei vostri e l’allegria dei vinti e una tristezza grande”. Ma ciò non preclude al poeta friulano di gettare avanti la sensibilità più autentica e indifesa, di rendere omaggio alla natura tutta e all’amore (“Piove, e se piovesse per tempo sarebbe questa tua carezza lunga”), di sorridere e gettarsi incontro al cielo e al suo elementare azzurro.
Ecco una poesia di questa straordinaria raccolta che l’ha reso noto ovunque. “SERA./ Le nove, la sera, e un poco il nero che ti sporca le mani/ è tutta la terra passata di qui/ a che ora le api vanno a dormire, pensi, ti chiedi,/ premi il cavo del palmo sull’orlo del ginocchio/ nel dirti senti come sono nuove le foglie/ da quale maniera di essere solo sono volate/ adesso guardi le cose come sono venute/ come si sono fissate, quando nella tua persona/ e appena pieghi la testa nel vuoto,/ nella domanda a che ora le api vanno a dormire/ quando sono passati il sapore di terra e le nuvole/ davanti ai miei anni, insieme”.
E una in friulano: “Lassaitmi cussì come/ ch’o stoi cence rasons/ cence vuadagn nì dam/ doi vôi davierts ai fonts/ rasonaments dal cîl/ ch’al sta parcè che o stedi/ fer cussì come ch’o stoi/ Lassaitmi achì ch’o sedi/ la sissule plui scarte/ ta l’aiarfuart di Avrîl/ il svoledon di cjarte/ poiât tal vert dal prât,/ la maravee dal frut/ ch’al dîs che al à svolât”. (“Lasciatemi così come rimango, senza ragioni, senza guadagno né danno, due occhi aperti ai fondi ragionamenti del cielo che sta perché io stia fermo così come rimango. Lasciatemi qui, che io sia la scheggia più a buon prezzo dentro l’ariaforte di aprile, l’aeroplano di carta posato nel verde del prato, la meraviglia del bambino che dice che ha volato”).