“E’ proprio vero che per salvare queste quattro ossa se si riesce bisogna lottare continuamente”. Trasferito dai tedeschi in un campo di concentramento dopo l’armistizio dell’8 dicembre ’43, vittima della malaria, Secondo Berdini in quei giorni è un uomo immensamente stanco tenuto in piedi solo da una Fede solida e ancestrale. Un sentimento che gli ha trasmesso la sua famiglia d’origine, di cui nel mentre ha poche e sporadiche notizie, come testimonia il diario che il maceratese ha tenuto fino al ritorno nella sua città, il 10 settembre del ’45.
Oggi quelle pagine, di struggente bellezza e straordinaria rilevanza storica (è la guerra vista “dall’altra parte”, non quella degli eserciti e dei vincitori e sconfitti ma quella delle inconsapevoli vittime), possono finalmente essere lette – speriamo anche nelle scuole – grazie al lavoro capillare del figlio Giacomo che ha riunito queste toccanti note in un volume (“Le mie prigioni”) edito nella collana “Quaderni del Consiglio regionale delle Marche”.
Berdini è il nostro Virgilio attraverso quell’orrore della normalità che ogni guerra si porta dietro. Non riesce ad avere notizie certe sull’andamento del conflitto. Ci racconta, nelle preziose pagine, come l’incertezza faccia largo alla disillusione, specie dopo l’armistizio, festeggiato in principio ma che poi “si trasforma in alcuni dubbi”. “I giorni che apparivano tanto sublimi” si trasformano “in triste attesa”. Berdini è minuzioso, attento, narra una Storia che nessuno conosce se non chi ne subisce le conseguenze: “Sono lunghi gli anni che la nostra vita si trova al sacrificio”.
E’ l’amaro calice da bere per quest’umanità dolente che Berdini, nel suo linguaggio diretto (e bene ha fatto suo figlio Giacomo a pubblicare il diario anche con qualche svarione grammaticale perchè ne restituisce intatta la forza delle pagine), descrive come un pittore, con poche ed essenziali pennellate che racchiudono tutta l’immane tragedia.
Il libro è anche la lotta tra una “guerra che non abbiamo voluta, siamo stati comprati e venduti come bestie” e l’istinto naturale del sopravvivere, anche all’orrore. Sorpreso, come tanti italiani, dall’evoluzione del conflitto in Grecia, da Arta, Filippias e Giannina, Berdini è trasferito in carro merci in Germania, dove la sua incertezza di uomo perduto nei territori dell’oblio, quello del non sapere e del non essere, giunge a compimento con la liberazione dei russi.
Il viaggio di ritorno a Macerata è il faticoso ritorno alle origini e ai cari. Ma la guerra non finisce mai: il giovane viene ricoverato, una volta tornato a casa, tre anni al sanatorio di Jesi per via della tubercolosi che si era portato appresso. Berdini ci testimonia che solo una Fede autentica e la speranza in un futuro diverso potevano salvarlo. Anche se l’Italia non è più la stessa (“I progetti era per farla più bella, per renderla più grande, mentre attualmente non sappiamo neanche chi sia il padrone”), anche se lui, dopo, avrà il dovere di raccontare affinchè nessuno dimentichi.