Con una horma de esperanza y dedos de clavelina/ Va tejiendo su sombrero/ La manabita más linda. Così comincia il tenero e affettuoso canto dedicato da Paco del Castillo alle tessitrici della provincia ecuadoriana di Manabì dove, da sempre, si fanno i cappelli migliori del mondo. E a Montecristi y Jijipaja (“dove si produce una paglia sottilissima e bianca con la quale si tessono cappelli che si venderanno a tre o cinque scudi, ma li valgono perchè sopportano il sole intenso e le grandi piogge” scriveva Mario Cicala nel Settecento), dove questi Panama, desiderio del mercato del lusso, si sono specializzati nei gusti europei.
Arte e tradizione, nessuno può competere questi artigiani. A Roma, dove vive da oltre vent’anni, Gladys Mercedes Rosado, ceo di Giemme Montecristi, continua la tradizione importandoli in Italia. Gioielli che richiedono, in fase di realizzazione, “mani rapide e precise” e una tecnica sopraffina, quale quella di Gabriel Alberto Lucas Mero, in questi giorni a Teramo per far conoscere anche in Abruzzo come si produce un’eccellenza.
Proprio da queste parti, grazie ad Alfredo Aramondi, amico dell’Ecuador tanto da essere rappresentante in Italia della CBEI, e a Rubini Moda che ha deciso di puntare su questo prodotto, si può acquistare il vero cappello di Panama. E’ il terzo punto vendita scelto da Gladys dopo Milano e Montecarlo. E’ lei a garantire la qualità assoluta, fatta di maestria artgianale ed esperienza atavica. Il Panama, insomma, è solo ed esclusivamente ecuadoriano.
Dalle epoche precolombiane usano la toquilla, la materia prima su cui lavorare intrecciandola con tecniche che quasi nessuno conosce. La fama dei Panama si espanse rapidamente fino al Perù, alla Bolivia e a tutto il Centro America. Soluzione alla crisi economica della zona, già a metà dell’Ottocento a Cuenca nacque il primo taller e decisero per decreto che quell’arte di tessere sarebbe stata materia obbligatoria di insegnamento.
Divenne in seguito un fenomeno di interesse mondiale, tanto da essere protagonista alla Expo di Parigi del 1855: dal porto di Guayaquil, dicono le cronache, ogni anno partivano 500mila capi del capo di lusso (oggi sono 5mila), un mercato “superiore a quello del cacao”.
Ma perchè, se è ecuadoriano, di chiama cappello di Panama? Per un equivoco. Quando cominciò l’opera di costruzione del celebre Canale, le foto dell’epoca (e il presidente statunitense Roosevelt, grande appassionato, li indossava) mostravano i lavoratori con questi cappelli per difendersi dal calore. Svelato l’inganno. Oggi l’arte di confezionare questi oggetti di lusso è Patrimonio immteriale dell’Umanità, come ha sancito l’Unesco. Giusto riconoscimento per un lavoro certosino, sostenibile, di autentica grandezza.